sabato 20 novembre 2010

quality lobbying

Qualità: funzione associativa primaria per i lobbisti e per le imprese

Siamo tutti impegnati in un quotidiano complesso.
I livelli delle più consuete relazioni e degli specifici rapporti professionali si sono moltiplicati sia in modo orizzontale che verticale.
Le distanze, in senso opposto, si sono ridotte e non solo attraverso le tecnologie: non esiste più un “locale” conosciuto e sicuro in cui rifugiarsi; l’informazione ed in generale tutto il sistema delle comunicazioni si è posto prepotentemente al centro di ogni sfondo personale, aziendale, privato e pubblico e, infine, del complesso organismo che noi chiamiamo Stato.
Conosciamo il mondo attraverso degli schermi, concludiamo affari attraverso gli stessi schermi, prendiamo le decisioni sulle nostre aziende e sulla nostra vita ancora sulla base di ciò che compare in queste piattaforme sempre più fluide e virtuali. I notiziari televisivi e dei new media formano l’agenda sia generale che specifica cui nostro malgrado siamo e saremo soggetti, arrivando nel caso dei secondi a ricomporre persino nuovi scenari “tribali”.
In tutto questo, paradossalmente, il senso di incertezza aumenta, visto che non passa un solo giorno in cui non si ponga in risalto l’inadeguatezza dell’intero sistema ed in esso in particolar modo della politica (di tutta la politica, organizzazione-persone) rispetto alle dinamiche sociali ed economiche e senza che vengano citate le situazioni critiche delle piccole e medie unità produttive da un lato, i problemi di radicale riassetto della grande industria dall’altro, infine la pervasiva, straripante, spesso abusata e mal utilizzata forza della finanza.
Ogni organizzazione così è toccata sia dal clima economico e politico che si “respira”, sia dalla efficacia - sarebbe meglio dire dalla inefficacia - della governance, che ora si definisce ed interviene in una dimensione realmente multilivello.
L’ordinamento, vale a dire il quadro di riferimento formale, anziché semplificarsi si rende più complesso: nelle procedure formative che acquisiscono sempre maggiori specificità tecniche, negli iter e nelle compilazioni che subiscono delle “piegature” anomale, nelle incerte gerarchie e nell’impossibile coordinamento delle fonti, nelle obbligatorie (ma costantemente omesse) valutazioni di impatto, preventive e successive.
Sul piano operativo, per quanto concerne gli interlocutori, prima esistevano i fornitori, i clienti ed i dipendenti, oggi ci sono gli stakeholders, termine da terzo millennio che sta semplicemente ad indicare che vi é attorno all’impresa - ma persino al mondo no profit - una moltitudine di soggettività organizzate singolari e collettive, portatrici di specifici interessi, che possono avere pesante incidenza sulle sorti della stessa.
Non più solo mercato, ma sempre di più pre-mercato, non più solo compra-vendita di beni o servizi, ma veri e propri giochi di potere, poteri piccoli e poteri grandi, ma pur sempre poteri. Forze a volte aggregate e concordi, a volte in antagonismo, altre ancora in netta contrapposizione. Questo è il mondo in cui deve muoversi con dignità, professionalità, etica inattaccabile una figura professionale in realtà antica ma oggi “ridisegnata” e specificamente individuata: il lobbista.
Ormai si sprecano i saggi che descrivono la storia più recente di questa che si potrebbe definire una vera e propria funzione-professione, a partire dalle vicende e dalle prassi nord americane; quello che è meno detto e spiegato è che si tratta di un profilo che si realizza non in termini assoluti ma per un determinato contesto e in un determinato momento storico.
Definire chi è il lobbista o chi dovrebbe essere oggi nel nostro paese quindi non è cosa di poco conto; stabilire quale deve essere lo statuto formativo e operativo di questa figura sotto ogni aspetto strategica è questione essenziale persino rispetto al mantenimento delle garanzie democratiche delle funzioni legislative e di governo sia generali che locali. Il quadro delle modalità di rapporto stato-mercato, o se si preferisce, politica-affari, e la condizione dei soggetti che in esso agiscono dovrebbe essere iscritto in una posizione alta nell’agenda politica e ancora di più comparire in modo prepotente negli obiettivi strategici e nella mission delle associazioni categoriali, corporazioni e networks economici di vario tipo.
In particolare quando i due termini di confronto sono l’uno pubblico e l’altro privato c’è un bisogno assoluto, impellente, di sapere chi si rapporta con chi, come, dove, quando, con che finalità e con che mezzi.
Questo alla fine è anche il senso ultimo delle replicate proposte e disegni di legge - quasi mai esattamente pertinenti e centrate - miranti a disciplinare il fenomeno della rappresentanza di interessi presso il decisore pubblico, nonché della richiesta di trasparenza che costantemente emerge dagli ambienti più emancipati riguardo a queste tematiche. Omettere precisi interventi in tutto ciò è politicamente colpevole, significa accettare passivamente che il livello etico dell’intero sistema economico nazionale slitti verso una deriva che con le regole legali e del mercato ha molto poco a che fare.
Come risalta dalle cronache: “dossieraggio”, “faccendierismo”, avanspettacolo e mazzette, questo è il prezzo che si continuerà a pagare in assenza di una presa di coscienza della necessità di stabilire regole o, meglio ancora, autoregolamentazioni (rigide e sanzionabili) all’azione di chi agisce in una posizione pubblica e politica in rapporto con un privato o, all’opposto, di chi interviene verso un pubblico potere per sostenere e sviluppare i propri interessi.
In questo quadro il lobbista è figura centrale, mediatore e connettore, costruttore o distruttore. Il lobbista può essere in house o a contratto, può solo indirizzare e formare o agire in prima persona, può consigliare o persino imporre la propria logica, in ogni caso resta la figura centrale della leva-scambio pubblico-privato. Ciò che fa il lobbista per il suo committente spesso diventa legge, e se non diviene tale resta pur sempre nella stratificazione linguistica (frames) di una rilevante tematica economica o sociale. Contenuti che possono passare dalla politica d’impresa ad una public policy. Si potrebbe dire che la funzione è istituzionalmente strategica, quantomeno perché integrativa del processo decisionale pubblico, se vogliamo “sussidiaria”. Non si puo’ dunque lasciare al caso la specificità formativa di tale operatore. Tanto meno la condizione etica che inevitabilmente si ricollega a quella scientifica ed intellettuale. La componente informativa e relazionale, come più volte è stato evidenziato, non è trascurabile, ma si deve ricordare che si tratta di elaborare e portare contenuti; il lobbista è un consulente nel senso più pieno del termine.
Assodata la collaborazione istruttoria con i tecnici del settore per quanto concerne le esigenze della produzione e dei servizi delle imprese o delle organizzazioni per le quali opera, resta in primo luogo la necessità che il lobbista conosca gli strumenti tecnico-legali di governo dell’economia sia a livello micro che macro, nonché le dinamiche decisionali reali all’interno degli apparati, il formarsi ed il divenire delle politiche pubbliche. Si tratta dunque di un bagaglio conoscitivo in primo luogo giuridico e politologico, cui non può non far seguito quello economico e comunicazionale. Focalizzare tutto questo sarà uno dei fondamentali compiti delle associazioni professionali degli esperti in public affairs, cosa che potrà essere fatta non tanto attraverso l’imposizione di rigidi percorsi formativi o mediante l’apposizione di vincoli all’entrata - esclusi quindi albi e antiquati istituti ordinamentali - ma attraverso sequenze di identificazione e legittimazione, una sorta di benchmark associativo che ponga in evidenza “chi”, e dove si sviluppino punti di merito ed eccellenza.
Nella possibile diversità ed atipicità dei mandati, dovrà trovare in questi casi sempre pieno valore e tutela associativa il dettato del codice civile riguardo al trattamento di questo lavoratore intellettuale per le prestazioni rese, che dovrà essere adeguato all’importanza dell’opera e soprattutto, nel nostro caso, al sostanziale ed energicamente richiesto ed affermato decoro della professione.
Logica conseguenza: una forma libera ma solerte di vigilanza attuata per scongiurare l’inserimento in un tale contesto di infiltrazioni malavitose e ancor di più il crearsi di situazioni di sovrapposizione e incompatibilità, tra le quali il più noto e diffuso fenomeno del revolving door.
Da questa espressione, che sintetizza efficacemente la prassi diffusissima non solo nel nostro paese di far agire nel campo degli affari pubblici ex deputati, senatori, consiglieri, politici di vario livello perché considerati “addentro” il potere e quindi efficaci, si può partire per denunciare nuovamente l’assoluta mancanza di volontà del nostro legislatore di porre mano ad una disciplina contestualizzata delle relazioni istituzionali. Informazione, trasparenza, partecipazione, petizione sono parole che risuonano in modo sgradevole, persino sinistro, nell’ambito di una classe politica che non ha mai accettato nemmeno di porre le regole basiche del “suo” gioco e che predilige per la propria azione quotidiana spazi sempre più “vuoti di diritto”.
Salvo un improbabile ripensamento strutturale del quadro istituzionale e dell’apparato pubblico allargato, salvo l’introduzione di una più improbabile legge che disciplini l’essenza ed i limiti dell’azione dei partiti, non c’è da aspettarsi alcuna seria risposta dal mondo politico riguardo alla dinamica relazionale di cui stiamo trattando; al contrario la politica va a presentarsi sempre più come luogo di trattazione e cura di interessi molto particolari ed area consociativa verticalizzata per l’espressione di un lobbismo improprio e deviato. Dinnanzi ad uno scenario di questo tipo non certo confortante, esiste una via d’uscita ?
L’operatore economico - analogamente un’organizzazione no profit - che vuole intervenire in una politica, in un processo legislativo, in un procedimento di amministrazione attiva ad “armi pari” con gli altri protagonisti presenti e su di un piano garantito di equivalenza e di ascolto può sperare che questo accada ?
Chi giovane o meno giovane crede di poter operare in quest’ambito con una specifica qualifica professionale e investe su se stesso presentandosi come specialista delle relazioni istituzionali può sperare in qualcosa di nuovo, in un’affermazione chiara e universalmente riconosciuta e socialmente accettata di questo ruolo ?
La riposta è affermativa e potrebbe venire proprio dal mondo associativo e dai diversi networks. Dall’associazione di coloro che si qualificano “lobbisti” e dalle organizzazioni imprenditoriali e professionali, come nuovi “attori creativi” e non più supinamente adattati e condizionati dal “campo politico”.
Un associazionismo professionale democratico e pluralista, forte, autonomo e consapevole potrebbe diventare una delle chiavi di volta per superare l’empasse in cui il legislatore sia nazionale che regionale ha fino ad ora mantenuto la “partecipazione informata” ai processi regolativi dei gruppi sociali ed economici non privilegiati.
Abbiamo avuto dal dopoguerra un’affermazione piena, sovrastante, di quello che in termini benevoli è stato chiamato “il tavolo della concertazione”; tutti coloro che hanno operato nelle più tipiche micro-comunità produttive italiane ne conoscono gli effetti non sempre propizi.
Oggi è dalla singola impresa, dalle forme associative minori di questa - ma non per questo meno strategiche - che ci si aspetta l’innovazione, anzi l’auto-innovazione anche nel campo delle relazioni con il sistema politico. Del resto appare sempre più evidente la necessità di dare maggior rilievo al dato sostanziale della valenza ed utilità del contributo (“rispettabilità, funzionalità, autorevolezza, prossimità”), più che alla ipotetica rappresentatività. Così per la cura degli affari pubblici, non più faccendieri veloci di passo, ma lenti di ragionamento e soprattutto privi di ogni retaggio etico. Al loro posto personale qualificato inserito in un contesto formativo, professionale ed organizzativo di eccellenza e garanzia.
Consulenti che “aiutino le imprese a far politica,(in modo etico, legale e trasparente) a “ricostruirla”, non a influenzarla così com’è”(Micucci). Il lobbista inteso dunque come partner dotato di “un insieme insolito di competenze”(Cattaneo Zanetto), di una “visione ricostruttiva” capace di aiutare l’organizzazione economica – o no profit - ad intervenire con specifico peso e lecitamente sul mercato e prima ancora sull’intero campo di azione, per l’espressione di una “nuova (diversa) logica competitiva”(Primavera).
Così pure la predisposizione di codici etici e procedimentali autodeterminati e vincolanti per focalizzare modi e luoghi dell’incontro con le istituzioni e la politica. Codici interni che non sarebbero altro che la necessaria integrazione di quelli già in via di diffusione che vincolano l’impresa ad una precisa responsabilità sociale. CSR (corporate social responsibility) e lobbying non sono mondi lontani, deve restare ben fissata nella mente dell’imprenditore come del “suo” lobbista la regola aurea, vale a dire che la cura di interessi particolari non può in alcun caso arrecare danno sociale, al contrario dev’essere operazione di integrazione e di beneficio per l’organizzazione rappresentata e per l’intero contesto in cui essa opera.
Con più semplice espressione si vuol dire che ogni organismo economico o sociale adeguatamente strutturato oggi, senza attendere oltre, dovrebbe rendere pubblico con i mezzi più idonei non solo lo stato dei rapporti con i propri stakeholders, ma allo stesso modo quello di ogni possibile azione ed intervento presso il decisore pubblico, di ogni livello e configurazione.
Qualità della produzione, qualità dell’organizzazione aziendale, qualità nel mercato, qualità nel sociale ed ora anche qualità nelle relazioni istituzionali.
Un marchio implicito di garanzia per ogni interlocutore, un fattore competitivo da aggiungere per posizionarsi e distinguersi da realtà più arretrate e vincolate ad un mondo ed a delle prassi anacronistiche, alla fine inesorabilmente fallimentari.
Dunque autodeterminazione, autoregolamentazione, professionalità, merito, diffusione spaziale, attualizzazione delle funzioni, questo è ciò che potrebbe portare la rappresentanza di interessi ed il lobbismo italiano in una posizione persino più trasparente, libera ed emancipata delle forme conosciute nel continente americano, riportate oggi invero con eccessiva semplificazione in sede comunitaria.


Maurizio Benassuti

20 novembre 2010





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lunedì 15 novembre 2010

Il lobbying "federalista"

Dialettica territoriale tra gruppi di interesse e governatorati regionali.

Distratti dalle faide interne alla maggioranza di governo, dalle estemporanee rimostranze della incerta opposizione e dall’imperante necrologismo mediatico, siamo portati a dimenticare le vicende e le politiche quotidiane dei governatorati locali, che non tengono più banco nemmeno nelle notizie dei TG regionali.
Eppure si tratta di istituzioni, organi e personaggi che agiscono per molti aspetti in modo decisamente più puntuale di quelli nazionali sulle condizioni di vita delle comunità, delle imprese e di ciascun cittadino. Basti citare per tutti i provvedimenti che derivano dalle politiche sanitarie e da quelle rivolte alla piccola industria, commercio ed alle infrastrutture.
Le Regioni come allargate holdings istituzionali spesso arrivano a comportarsi in diverse sedi come dei complessi privati, ragionando in modo più che federale, facendo azione di rappresentanza autonoma a Bruxelles e persino a Roma, omettendo tuttavia di riferire in modo strutturato alla propria opinione pubblica quanto attiene l’azione dei gruppi di interesse e pressione operanti nel proprio ambito geo-politico.
Nulla o quasi nulla riguardo alle modalità di relazione esterna, nessuna trasparenza e nessuna disciplina dei rapporti con i potentati economici e finanziari locali.
Nemmeno a parlarne poi di porre serie regole in base alle quali “autenticare” le azioni di lobbying che ogni giorno si svolgono nel loro ambito.
Così nel nostro Paese a tutti i livelli, e salvo punte emerse nelle cronache giudiziarie, al di fuori da alcuni ambienti che qualcuno definirebbe emancipati e dalle esperienze dichiarate della maggiore organizzazione industriale, l’azione più o meno professionale di rappresentanza di interessi (lobbying) continua a rimanere, anche nelle regioni, prerogativa di soggetti per lo più occulti e, giustamente, atta a suscitare notevoli sospetti.
In effetti l’assetto complessivo dei rapporti stato-mercato o, se si vuole, politica-affari, nella realtà italiana non è mai stata cosa di facile approccio, ancor meno nelle aree meridionali.
Non è casuale che fino ad ora nessuno dei tentativi di regolamentare in modo specifico gli aspetti più prettamente operativi e professionali di questa relazione abbia avuto successo, trovando una costante resistenza nelle forze di governo nazionali e locali di qualsiasi latitudine e colore.
A parte la rilevabile presenza di poteri forti di diverso livello e natura, poco interessati alla trasparenza, nella nostra cultura politica permane un atteggiamento che, se per molti aspetti e dati di esperienza appare fondato, risulta comunque piuttosto ipocrita se non decisamente antidemocratico: quello di evitare di definire e toccare con scelte di fondo o con una razionale disciplina fenomeni di questo tipo, e qualunque altro aspetto che attenga le dinamiche effettive di potere, in particolare quando siano collegate politica, economia, finanza, territorio.
Si tende così sostanzialmente a negare l’esistenza della possibile, a volte molto marcata, azione generale di “pressione” degli interessi organizzati più o meno occulti e più o meno legali e l’incidenza della stessa nelle vicende politiche, nonché nelle attività amministrative.
Così pure restano poco evidenziate le specifiche, mirate, iniziative assunte rispetto alle strutture pubbliche ed al corpo politico da parte di aggregazioni portatrici di interessi sia categoriali che territoriali locali.
Allo stato delle cose non esiste alcun efficace riconoscimento politico e legale di questa relazione e della funzione (spesso pesantissima) esercitata dai portatori di interessi nei processi decisionali pubblici, tanto meno di quella che sempre più sta diventando una “casta” di mediatori specializzati: i lobbisti, oggi meglio qualificabili con l’espressione “lobbisti all’italiana”.
La ridefinizione si rende necessaria perché quella che si dovrebbe delineare come una vera, ufficiale, riconosciuta e libera ma disciplinata dimensione professionale viene fatta restare volutamente nello spazio grigio dei familismi, delle clientele, dei compromessi e dei privilegi. Inevitabilmente ciò che ha attinenza con la rappresentanza degli interessi diventa sempre più spesso e necessariamente oggetto di reticenza, di voluta omissione ed alla fine spesso di interessamento giudiziario.
Ma quello che dagli interventi delle procure emerge è davvero poco: in realtà le sedi politiche nazionali e regionali, nonché gli uffici degli esecutivi e relativi corpi burocratici, sono affollate da operatori delle cosiddette relazioni pubbliche.
Tuttavia resta imbarazzante descrivere tutto questo come “lobbismo”; meglio soprassedere ed evitare di definire questo “guazzabuglio relazionale”, altrimenti si correrebbe il rischio di dover porre mano ad una vera disciplina e svelare, i piccoli e grandi conflitti di interesse e le sempre più frequenti incompatibilità.
Il termine lobbyng inserito nel nostro contesto risulta quindi una parola con significati e rappresentazioni ancora molto discutibili, sussurrata e alla fine, usata con riserva e fondato sospetto. Così, ritornando alle Regioni, in pochi sanno che alcune di queste hanno costituito propri (in alcuni casi onerosi) apparati di “presenza” in sede comunitaria e nella capitale, quasi fossero soggetti portatori di interessi distinti da quelli dello Stato, ma, come già detto, al contempo negano nei fatti, con ostinata resistenza, ogni serio e concreto aspetto organizzativo e disciplinare che ponga in evidenza la dialettica interna con i gruppi sociali ed economici del territorio.
Risulta sempre più evidente che resta forte la necessità per la classe politica di non alterare prassi ed equilibri consolidati con gli amici e, non ultimi, con gli storici soggetti della concertazione (principali rappresentanze imprenditoriali e del lavoro, corporazioni e chiese), fin troppo presenti e sovradimensionati anche in molte delle politiche locali.
Una differenza sostanziale dalla situazione di oltre-oceano cui costantemente si dice di voler fare riferimento (ma non si fa), dove non solo troviamo una ricercata, puntuale normativa generale e locale, ma anche svariate indicazioni in atti di natura pubblica sulle modalità organizzative dei gruppi di pressione e le relative molteplici azioni di lobbying nelle sue articolate forme ed espressioni (es. nei PAC) .
Nel continente nord-americano, per favorire l’essenziale trasparenza di questa dinamica, dall’interno degli organi legislativi e governativi, sia federali che dei singoli stati, vengono diramate notizie aggiornate e posizioni puntuali di legislatori e decision makers su materie e questioni importanti per l’economia e la società americana, anche in sede locale.
Il controllo sociale, attraverso i più svariati organismi, può così concretamente operare.
Nelle democrazie più articolate e consolidate quindi le attività di rappresentanza e di aggregazione degli interessi, salvo sempre possibili comportamenti illegali, tendono a svolgersi con una pre-definita visibilità, tanto da essere disciplinate prima ancora che dalla legge da prassi e codici di autoregolamentazione che toccano tutte le parti coinvolte.
Le più recenti tra queste iniziative, che sono arrivate solo a lambire gli ambienti comunitari europei, riguardano delle organizzazioni finalizzate alla trasparenza ed al miglioramento dei rapporti tra mondo politico ed affari, il cui scopo principale è quello di stabilizzare e rendere pubblico il dialogo tra i due ambiti, nonché gestire processi di formazione ed informazione reciproca tra eletti, imprenditori ed amministratori pubblici sulle rispettive attività e funzioni.
Nel nostro contesto, al contrario, non solo si evita di porre puntuali orientamenti normativi ed individuare accessibili sedi di confronto, ma si mantengono occulte persino le più semplici e basiche relazioni.
Persino le più semplici occasioni d’incontro potrebbero offrire il pretesto per l’offerta e lo sviluppo di attività consociative.
La prassi ha dimostrato che può accadere che un meeting tra un’organizzazione minore di rappresentanza industriale, professionale o una singola impresa con parlamentari o amministratori locali - data la consueta non formalizzazione della sede e lo stile abituale - possa trasformarsi in un riservato raduno clientelare per la trattazione di questioni fin troppo particolari.
Il fatto è che in ogni caso il rapporto tra impresa e potere pubblico, anche per la forte incidenza di prassi anomale, di ingombranti presenze malavitose e di non edificanti comportamenti atti a diventare fatti di cronaca, resta sospetto e può essere facilmente inteso come luogo e momento di affermazione degli interessi del capitale (lecito e spesso illecito) in contrapposizione all’interesse generale.
Fatte salve le imprescindibili esigenze di trasparenza e legalità, contro questo modo di porre le cose va sottolineato che la ricerca di un più stretto e, per quanto possibile codificato, collegamento tra economia e politica dovrebbe invece nascere dalla necessità di assicurare un costante, reciproco ed efficace scambio di idee ed esperienze.
L’assunto è che legislatori e governanti potrebbero trarre beneficio dall’apporto di chi opera nel campo economico per la pratica e l’esperienza vissuta dei problemi (expertise); mentre le imprese dovrebbero imparare a conoscere la complessità delle logiche e dei meccanismi di funzionamento degli organismi pubblici, in modo da rappresentare in maniera leggibile anche in quella sede i quadri di riferimento e le proprie istanze.
Detto questo, in attesa di una presa di coscienza da parte del potere politico, sia esso nazionale che regionale, potrebbe essere molto apprezzabile e di avanguardia l’atteggiamento di quegli organismi ed associazioni imprenditoriali che volessero decidere oggi, senza attendere oltre, di assumere iniziative di autodisciplina e rendere note, pubblicandole sul proprio sito, o divulgandole con altri mezzi più tradizionali, le posizioni assunte su materie poste all’esame del decisore istituzionale, in occasione di confronti privati e pubblici, specifiche audizioni ed eventuali concertazioni.
Il giorno in cui anche nel nostro sistema sociale ed economico si potrà dichiarare apertamente ad ogni livello istituzionale, politico, territoriale da entrambi i lati del rapporto l’esistenza di tavoli di confronto, nonché pubblicarne le cronache e gli esiti senza suscitare scandalo o obbligate reazioni da parte della magistratura, avremo finalmente compiuto un passo avanti sulla strada che porta verso una realtà meno ipocrita ed un paese più moderno e democratico.



Maurizio Benassuti R.

15 novembre 2010