lunedì 15 novembre 2010

Il lobbying "federalista"

Dialettica territoriale tra gruppi di interesse e governatorati regionali.

Distratti dalle faide interne alla maggioranza di governo, dalle estemporanee rimostranze della incerta opposizione e dall’imperante necrologismo mediatico, siamo portati a dimenticare le vicende e le politiche quotidiane dei governatorati locali, che non tengono più banco nemmeno nelle notizie dei TG regionali.
Eppure si tratta di istituzioni, organi e personaggi che agiscono per molti aspetti in modo decisamente più puntuale di quelli nazionali sulle condizioni di vita delle comunità, delle imprese e di ciascun cittadino. Basti citare per tutti i provvedimenti che derivano dalle politiche sanitarie e da quelle rivolte alla piccola industria, commercio ed alle infrastrutture.
Le Regioni come allargate holdings istituzionali spesso arrivano a comportarsi in diverse sedi come dei complessi privati, ragionando in modo più che federale, facendo azione di rappresentanza autonoma a Bruxelles e persino a Roma, omettendo tuttavia di riferire in modo strutturato alla propria opinione pubblica quanto attiene l’azione dei gruppi di interesse e pressione operanti nel proprio ambito geo-politico.
Nulla o quasi nulla riguardo alle modalità di relazione esterna, nessuna trasparenza e nessuna disciplina dei rapporti con i potentati economici e finanziari locali.
Nemmeno a parlarne poi di porre serie regole in base alle quali “autenticare” le azioni di lobbying che ogni giorno si svolgono nel loro ambito.
Così nel nostro Paese a tutti i livelli, e salvo punte emerse nelle cronache giudiziarie, al di fuori da alcuni ambienti che qualcuno definirebbe emancipati e dalle esperienze dichiarate della maggiore organizzazione industriale, l’azione più o meno professionale di rappresentanza di interessi (lobbying) continua a rimanere, anche nelle regioni, prerogativa di soggetti per lo più occulti e, giustamente, atta a suscitare notevoli sospetti.
In effetti l’assetto complessivo dei rapporti stato-mercato o, se si vuole, politica-affari, nella realtà italiana non è mai stata cosa di facile approccio, ancor meno nelle aree meridionali.
Non è casuale che fino ad ora nessuno dei tentativi di regolamentare in modo specifico gli aspetti più prettamente operativi e professionali di questa relazione abbia avuto successo, trovando una costante resistenza nelle forze di governo nazionali e locali di qualsiasi latitudine e colore.
A parte la rilevabile presenza di poteri forti di diverso livello e natura, poco interessati alla trasparenza, nella nostra cultura politica permane un atteggiamento che, se per molti aspetti e dati di esperienza appare fondato, risulta comunque piuttosto ipocrita se non decisamente antidemocratico: quello di evitare di definire e toccare con scelte di fondo o con una razionale disciplina fenomeni di questo tipo, e qualunque altro aspetto che attenga le dinamiche effettive di potere, in particolare quando siano collegate politica, economia, finanza, territorio.
Si tende così sostanzialmente a negare l’esistenza della possibile, a volte molto marcata, azione generale di “pressione” degli interessi organizzati più o meno occulti e più o meno legali e l’incidenza della stessa nelle vicende politiche, nonché nelle attività amministrative.
Così pure restano poco evidenziate le specifiche, mirate, iniziative assunte rispetto alle strutture pubbliche ed al corpo politico da parte di aggregazioni portatrici di interessi sia categoriali che territoriali locali.
Allo stato delle cose non esiste alcun efficace riconoscimento politico e legale di questa relazione e della funzione (spesso pesantissima) esercitata dai portatori di interessi nei processi decisionali pubblici, tanto meno di quella che sempre più sta diventando una “casta” di mediatori specializzati: i lobbisti, oggi meglio qualificabili con l’espressione “lobbisti all’italiana”.
La ridefinizione si rende necessaria perché quella che si dovrebbe delineare come una vera, ufficiale, riconosciuta e libera ma disciplinata dimensione professionale viene fatta restare volutamente nello spazio grigio dei familismi, delle clientele, dei compromessi e dei privilegi. Inevitabilmente ciò che ha attinenza con la rappresentanza degli interessi diventa sempre più spesso e necessariamente oggetto di reticenza, di voluta omissione ed alla fine spesso di interessamento giudiziario.
Ma quello che dagli interventi delle procure emerge è davvero poco: in realtà le sedi politiche nazionali e regionali, nonché gli uffici degli esecutivi e relativi corpi burocratici, sono affollate da operatori delle cosiddette relazioni pubbliche.
Tuttavia resta imbarazzante descrivere tutto questo come “lobbismo”; meglio soprassedere ed evitare di definire questo “guazzabuglio relazionale”, altrimenti si correrebbe il rischio di dover porre mano ad una vera disciplina e svelare, i piccoli e grandi conflitti di interesse e le sempre più frequenti incompatibilità.
Il termine lobbyng inserito nel nostro contesto risulta quindi una parola con significati e rappresentazioni ancora molto discutibili, sussurrata e alla fine, usata con riserva e fondato sospetto. Così, ritornando alle Regioni, in pochi sanno che alcune di queste hanno costituito propri (in alcuni casi onerosi) apparati di “presenza” in sede comunitaria e nella capitale, quasi fossero soggetti portatori di interessi distinti da quelli dello Stato, ma, come già detto, al contempo negano nei fatti, con ostinata resistenza, ogni serio e concreto aspetto organizzativo e disciplinare che ponga in evidenza la dialettica interna con i gruppi sociali ed economici del territorio.
Risulta sempre più evidente che resta forte la necessità per la classe politica di non alterare prassi ed equilibri consolidati con gli amici e, non ultimi, con gli storici soggetti della concertazione (principali rappresentanze imprenditoriali e del lavoro, corporazioni e chiese), fin troppo presenti e sovradimensionati anche in molte delle politiche locali.
Una differenza sostanziale dalla situazione di oltre-oceano cui costantemente si dice di voler fare riferimento (ma non si fa), dove non solo troviamo una ricercata, puntuale normativa generale e locale, ma anche svariate indicazioni in atti di natura pubblica sulle modalità organizzative dei gruppi di pressione e le relative molteplici azioni di lobbying nelle sue articolate forme ed espressioni (es. nei PAC) .
Nel continente nord-americano, per favorire l’essenziale trasparenza di questa dinamica, dall’interno degli organi legislativi e governativi, sia federali che dei singoli stati, vengono diramate notizie aggiornate e posizioni puntuali di legislatori e decision makers su materie e questioni importanti per l’economia e la società americana, anche in sede locale.
Il controllo sociale, attraverso i più svariati organismi, può così concretamente operare.
Nelle democrazie più articolate e consolidate quindi le attività di rappresentanza e di aggregazione degli interessi, salvo sempre possibili comportamenti illegali, tendono a svolgersi con una pre-definita visibilità, tanto da essere disciplinate prima ancora che dalla legge da prassi e codici di autoregolamentazione che toccano tutte le parti coinvolte.
Le più recenti tra queste iniziative, che sono arrivate solo a lambire gli ambienti comunitari europei, riguardano delle organizzazioni finalizzate alla trasparenza ed al miglioramento dei rapporti tra mondo politico ed affari, il cui scopo principale è quello di stabilizzare e rendere pubblico il dialogo tra i due ambiti, nonché gestire processi di formazione ed informazione reciproca tra eletti, imprenditori ed amministratori pubblici sulle rispettive attività e funzioni.
Nel nostro contesto, al contrario, non solo si evita di porre puntuali orientamenti normativi ed individuare accessibili sedi di confronto, ma si mantengono occulte persino le più semplici e basiche relazioni.
Persino le più semplici occasioni d’incontro potrebbero offrire il pretesto per l’offerta e lo sviluppo di attività consociative.
La prassi ha dimostrato che può accadere che un meeting tra un’organizzazione minore di rappresentanza industriale, professionale o una singola impresa con parlamentari o amministratori locali - data la consueta non formalizzazione della sede e lo stile abituale - possa trasformarsi in un riservato raduno clientelare per la trattazione di questioni fin troppo particolari.
Il fatto è che in ogni caso il rapporto tra impresa e potere pubblico, anche per la forte incidenza di prassi anomale, di ingombranti presenze malavitose e di non edificanti comportamenti atti a diventare fatti di cronaca, resta sospetto e può essere facilmente inteso come luogo e momento di affermazione degli interessi del capitale (lecito e spesso illecito) in contrapposizione all’interesse generale.
Fatte salve le imprescindibili esigenze di trasparenza e legalità, contro questo modo di porre le cose va sottolineato che la ricerca di un più stretto e, per quanto possibile codificato, collegamento tra economia e politica dovrebbe invece nascere dalla necessità di assicurare un costante, reciproco ed efficace scambio di idee ed esperienze.
L’assunto è che legislatori e governanti potrebbero trarre beneficio dall’apporto di chi opera nel campo economico per la pratica e l’esperienza vissuta dei problemi (expertise); mentre le imprese dovrebbero imparare a conoscere la complessità delle logiche e dei meccanismi di funzionamento degli organismi pubblici, in modo da rappresentare in maniera leggibile anche in quella sede i quadri di riferimento e le proprie istanze.
Detto questo, in attesa di una presa di coscienza da parte del potere politico, sia esso nazionale che regionale, potrebbe essere molto apprezzabile e di avanguardia l’atteggiamento di quegli organismi ed associazioni imprenditoriali che volessero decidere oggi, senza attendere oltre, di assumere iniziative di autodisciplina e rendere note, pubblicandole sul proprio sito, o divulgandole con altri mezzi più tradizionali, le posizioni assunte su materie poste all’esame del decisore istituzionale, in occasione di confronti privati e pubblici, specifiche audizioni ed eventuali concertazioni.
Il giorno in cui anche nel nostro sistema sociale ed economico si potrà dichiarare apertamente ad ogni livello istituzionale, politico, territoriale da entrambi i lati del rapporto l’esistenza di tavoli di confronto, nonché pubblicarne le cronache e gli esiti senza suscitare scandalo o obbligate reazioni da parte della magistratura, avremo finalmente compiuto un passo avanti sulla strada che porta verso una realtà meno ipocrita ed un paese più moderno e democratico.



Maurizio Benassuti R.

15 novembre 2010