lunedì 10 agosto 2009

Lettera a un lobbista

Caro M.M.,
riguardo alla (molto eventuale) definizione legale dell’attività lobbistica nel nostro Paese sono d'accordo, ci si dovrebbe collegare alle esperienze ed alle realtà istituzionali che, almeno teoricamente, si dimostrano più evolute, valutarne i limiti per non commettere gli errori evidenziati, coglierne gli aspetti più positivi.
In realtà conosciamo i motivi dell’impossibilità di arrivare fino ad oggi ad una qualsiasi sorta di regolamentazione, sembrerebbe tuttavia di essere arrivati alla “resa dei conti”.
Se si volesse realmente salvare questo paese dalla bancarotta (il fallimento politico ed economico è già stato dichiarato anche se non pubblicato) non ci si potrebbe più sottrarre alla necessità quantomeno di rilanciare una dimensione più etica della politica e dell'economia nonché del sistema di relazioni e rapporti fra di esse esistenti.
Ma tutto questo non si farà.
Anzi, si nota sul versante politico una forsennata ostinazione a salvaguardare i più bassi interessi di casta, di ogni tipo di casta coinvolta, e su quello imprenditoriale una strenua resistenza delle corporazioni ad accettare l'idea per sé stesse e per i propri aderenti di una ricerca di trasparenza e un'autodisciplina nei rapporti istituzionali e persino nel rispetto delle regole di mercato (che è tutto dire).
Quanto alla spesso dimenticata ma sempre più potente dirigenza pubblica è facile verificare come sia costantemente inosservante delle linee guida anche di natura etica che in tante occasioni sotto forma di direttive, circolari, ecc. sono state, con un bel tasso di ipocrisia, emanate.
Forse qualche bella presa di posizione o sanzione e qualche significativo esempio non guasterebbero - e non sto parlando di condanne di ordine penale, non fa piacere a nessuno vedere la gente dietro le sbarre - basterebbe la decisa, definitiva esclusione dal “circolo”.
Ma il circolo esclude le esclusioni: ".. magari poi qualcuno si mette a parlare".
Ora si affaccia un ulteriore problema di cui cominciamo a trovare (timida) traccia nelle cronache.
In termini democratici ed in ordine alla politica istituzionale prevalente, vale a dire il c.d. federalismo, riguardo alle situazioni di cui stiamo parlando male si qualificano proprio le c.d. “autonomie locali” che per una supposta esigenza di governabilità, nelle sempre più esclusive prerogative dei governatorati regionali o municipali, in assenza di contrappesi, sembrano sempre di più feudi affaristici in cui l’ordinamento ed il principio di legalità risultano cose di altri tempi.
Altro che sussidiarietà e regolamentazione.

Maurizio Benassuti R.

20 luglio 2009