lunedì 10 agosto 2009

Lobbying "italiano"

Definizione e contorni Sembrerebbe che nell’ambito di quelle persone ed organizzazioni che in termini più o meno professionali, scientifici, o altro si occupano della dinamica della rappresentanza di interessi presso i decisori pubblici si sia formato un lessico, una specie di definizione d’insieme derivante da una sorta di consapevolezza tecnica di questa attività e dei suoi contorni. Una consapevolezza che se ben incanalata e gestita, anche attraverso alcune iniziative di tipo associativo potrebbe in effetti portare a qualche passo in avanti verso la professionalizzazione degli attori e delle sedi. Ma - e questo è il punto - gli aspetti definitori autodeterminati, scontano due limiti, o meglio si rapportano con difficoltà allo stato reale delle cose, che oggi non sembra essere, per una modalità di rappresentazione autenticamente contenutistica e democratica degli interessi, il più opportuno. Il primo di questi ostacoli è di carattere “strutturale”; l’altro scientifico e relazionale. Piegare un istituto anglossassone, il lobbying, volendo usarne con proprietà il termine descrittivo, alla prassi ed al quadro relazionale pubblico-privato italiano è un’operazione piuttosto azzardata. Infatti risulta poco compreso e in questo contesto, per alcune particolari evidenze, più spesso frainteso. Quella italiana, lo sappiamo bene, è una democrazia complessa, per molti aspetti diminuita, ridotta ai minimi termini, non tanto e non solo per l’attuale macroscopico disequilibrio nei poteri, ma per lo storico prevalere di alcuni aggregati e corporazioni che da sempre letteralmente bloccano il sistema. Definirlo un modello neo-corporativo sarebbe ancora un eufemismo. Quando mai le cupole finanziarie, le dinastie del capitalismo italiano, o i titolari delle grandi società pubbliche, o ancora, le rappresentanze sindacali o le principali istituzioni religiose hanno avuto bisogno di “rappresentare” i propri interessi e aspettative ? E' più facile pensare ad una sorta di occupazione, di direttive vincolanti o, peggio, di oneri molto impropri addossati al soggetto pubblico, piuttosto che di trasparente ed equilibrato negoziato di interessi. Un altro non trascurabile e specifico difetto del nostro sistema, chiamiamolo così, è dato dalla pervasiva presenza in ogni rapporto economico o politico di rilievo tra interlocutore pubblico e privato (al sud e al nord !) di quello che viene troppo semplicisticamente definito come "il fenomeno mafioso", che ripropone in realtà uno stile che viene ancor prima di ogni risvolto penale. Inutile citare esempi. Ci sarebbe da chiedersi in proposito quale fino ad oggi sia stato il ruolo del tipico nazional-lobbista in alcune note vicende risalite nelle cronache giudiziarie. Vien da pensare che i maggiori danni concettuali, operativi e definitori sia stata dunque la stessa categoria di questi “mediatori” di interessi ad averli prodotti. L’altro aspetto da mettere in rilevo attiene a quello che si potrebbe definire lo “statuto scientifico e professionale” dell’attività lobbistica. C’è una certa confusione anche in questo campo. Pubbliche relazioni, comunicazione pubblica ed istituzionale, legistica, tecniche negoziali e management, relazioni internazionali e progettazione comunitaria… e chi più ne ha ne metta. Si possono vedere i piani di studio dei corsi di perfezionamento presso alcune note università della capitale. Un'ammirevole composizione di conoscenze richiesta alla base della formazione e dell’azione del neo-lobbista italiano, ma alla fine una complessa miscellanea che non evidenzia un tratto formativo ed esperienziale prevalente ed identificante. Così, de iure condendo, molto diversi sarebbero i contenuti di una possibile disciplina (e quindi dell’identità) professionale se la si volesse considerare dal punto di vista delle relazioni pubbliche anziché da quello tecnico-giuridico pittosto che da quello manageriale; ma questo solo per fare una semplificazione. In altre parole siamo ben lontani dalla possibilità concreta di affermazione del lobbying, così come molti ora anche nel nostro Paese lo vorrebbero interpretare e prima ancora denominare; una realtà oltretutto che vede sempre più protagoniste le strutture intermedie con i loro esecutivi e corpi burocratici e non le principali assemblee legislative, oggi sempre meno rilevanti nei processi di decisionalità pubblica. Nemmeno rispetto alle rappresentanze italiane nelle sedi comunitarie, nonostante la moltitudine di operatori segnalata (sulla carta), per il groviglio di competenze, di organi, di funzioni e di canali di trasmissione dalla dimensione continentale a quella locale (quella che elegantemente viene definita governance multilivello) si può vantare di aver dato vita ad una vera figura di lobbista europeo; semmai ad una sorta di analista coadiutore esterno nei processi di decison making. In più, se è vero che la parte preponderante dell’economia italiana è rappresentata da PMI, lavoro autonomo e professioni è certo che il fenomeno del lobbismo, (così come, con spirito democratico, professionalità ed etica lo si vorrebbe interpretare) da questa dimensione sia singolare che aggregativa è stato e rimane sostanzialmente estraneo. E su questi fenomeni economici ed associativi e sull’azione di questi ultimi soggetti ci sarebbe da discutere molto più a lungo e ancor più criticamente. Ciò che presso l’opinione pubblica alla fine si percepisce può esser molto più vicino alla realtà di quanto non si voglia ammettere: semplicemente quello che si evidenzia nei fatti e che viene esposto con solo apparente semplificazione. In trasparenza si scorgono le disfunzioni e sfasature macroscopiche nel rapporto tra lo stato ed "il mercato" che, ben coperte da un lessico pseudo-moderno e spesso di propaganda, fanno invece arretrare sempre di più questo paese. Tra queste, anche quello che fino ad oggi meglio potremmo definire, nostro malgrado, il lobbying all’italiana.

Maurizio Benassuti R. 10 agosto 2009


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